piccole illuminazioni


minoru mochizuki, 1988
Minoru Mochizuki all’età di 81 anni – “…questo mi disse Ueshiba guardandomi dritto neglio occhi…”.

Il nostro maestro parla di “piccoli satori”, piccole illuminazioni.

Il termine non è appropriato ma rende bene ciò che si prova quando si intuisce qualcosa per la prima volta, anche una piccola cosa.

Sono le 22 passate al nostro dojo (struttura S.Maria Mater Dei – Roma), solo due ore fa eravamo mesti e affaticati, ognuno per motivi diversi, sembra impossibile, ma ora ci sentiamo carichi e prodighi di sorrisi. Mi sorprendo a vedermi, se non condividere, almeno accettare vedute ed opinioni diverse dalle mie (in altri momenti la mia vena polemica le avrebbe rifiutate).

Mi ritrovo a riflettere per la prima volta sul fatto che ognuno di noi non è venuto oggi solo per sentirsi più in forma ma per ricercare, ciascuno per conto proprio, di superare qualcosa che lo limita e forse lo opprime, di operare un cambiamento. Ognuno di noi sente il richiamo verso percorsi diversi dalla comoda e stagnante staticità dell’ abitudine.

Siamo insoddisfatti della nostra vita? Nè più ne meno di quanto lo siano tutti gli altri, immagino. Quello che ci spinge a praticare non parte da un obiettivo preciso ma dalla curiosità. Questa, a mio modesto parere, è una componente della parola “do“: la via che si è scelto di seguire, che non sappiamo dove e quanto lontano ci potrà portare.

Al termine di certe lezioni come questa, intense e partecipate, mi capita di ripensare al significato del nostro Aikido, e appena finito di scrivere questa frase mi accorgo di aver usato senza troppo pensarci due parole importanti: “significato” e “nostro“. La prima parola è la chiave per chi si accinge a praticare un’arte marziale con il giusto spirito: qui non si tratta di fare uno sport qualsiasi, non si tratta solo di imparare delle tecniche, è necessario dargli un significato. Questo non vuol dire che non si possa praticare senza porsi domande gravi ed importanti ma, sarà sempre più difficile  continuare a praticare senza porsele, sopratutto l’Aikido, disciplina che non ha altri scopi se non la pratica stessa.

La seconda parola è “nostro”: l’Aikido eredita tecniche e conoscenze così vaste che ogni maestro, secondo la propria sensibilità e cultura, insisterà su una parte piuttosto che un’altra, cosicchè ogni dojo è di fatto differente da tutti gli altri. Ma “nostro”, in questo caso significa anche di più: suggerisce che quest’arte nasce come scambio diretto di personalità, di gesti, di pensiero, di respiro, in altre parole di ki. Un tale scambio sincero e disinteressato non si realizza se non in un contesto di non competitività. Addirittura il fondatore Ueshiba parlava di Aikido come amore universale. Pochi riuscirono a capirlo, i suoi allievi allora erano molto giovani. Eppure questo sentimento sembra di poterlo almeno sfiorare, talvolta, durante la pratica. Quelli sono i momenti più veri ed intensi, quelli che ti danno come una scossa, quasi si tratti appunto di piccoli satori. L’amore di cui parlo non è l’affetto che si può provare per un componente della squadra sportiva di cui si fa parte (che presuppone però l’odio per la squadra avversaria), visto che in Aikido non esiste squadra nè – lo ripeto – un individuo contrapposto all’altro; quell’amore assomiglia in qualche modo a quello che le religioni insegnano.

Vorrei citare un episodio della vita di Minoru Mochizuki Sensei (1907-2003) uno degli uchideshi (allievi diretti) più accreditati da Morihei Ueshiba, il fondatore dell’Aikido.

Mochizuki fu il primo a portare l’Aikido in occidente (in Francia nel 1951). Nell’estratto dell’intervista che riporto egli ricorda un diverbio avuto con Ueshiba, in cui quest’ultimo gli rivelò la strada da intraprendere e per Mochizuki rappresentò una rivelazione.

Minoru Mochizuki Sensei:

Quando tornai [dall’Europa n.d.r.] gli dissi:
“Sono andato oltreoceano a diffondere l’Aikido e ho combattuto con molte persone
diverse, con cui era molto difficile vincere solo con la tecnica dell’Aikido”.
In quei casi istintivamente attingevo anche al Judo e al
Kenjutsu per uscire dalla situazione. Ero giunto alla conclusione
che le tecniche di Daito-ryu jiujitsu non erano
decisive. Certi lottatori non si facevano impressionare
dalle proiezioni, si rialzavano e venivano più vicini; il boxeur
supera molto le tecniche di pugno e calcio del karate.
L’Aikido potrà diffondersi internazionalmente se il suo
bagaglio tecnico si espanderà per essere competitivo con
altri sistemi di combattimento. Dopo aver spiegato questo,
Sensei disse:
“Quanto dici parte dalla considerazione di vincere o perdere”.
Risposi: “Per vincere bisogna essere forti; ora che l’Aikido si espande, penso che sia necessario
essere teoricamente e tecnicamente in grado di sostenere qualsiasi sfida”.
Ueshiba mi sgridò:
“La tua maniera di pensare è errata;
naturalmente non si deve essere deboli, ma questo non è
tutto. Non capisci che non è più tempo di badare al vincere o perdere?                                                                                                                                Questa è un’epoca d’amore, non riesci a vederlo?”.
Questo mi disse guardandomi diritto negli occhi.
Io non ero ancora in grado di afferrare quanto lui disse,
ma gradualmente, passando il tempo, tutto divenne più
chiaro e oggi condivido questa opinione.
Negli ultimi quattro o cinque anni abbiamo visto il mondo
muovere gradualmente verso la guerra che dicono potrebbe
ridurre la popolazione a un terzo del suo numero
presente. In una tale atmosfera, come possiamo giocare
in termini di vincere o perdere? Oggi sento sinceramente,
dal più profondo del cuore, che è il Budo quello che voglio
diffondere; sento fortemente che bisogna raggiungere
la gente con il pensiero di Ueshiba-sensei, ed è necessario
disporre della tecnica che trasmette queste cose, evitando
troppi discorsi.

Scopri di più da lo scorrere del Ki

Abbonati gratuitamente ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere